Il coaching, per migliorare se stessi

Il coaching può essere un valido strumento per l’innovazione manageriale, ma cos’è il coaching?  Quali sono le sue caratteristiche salienti?

 

Timothy Gallwey, capitano del Tennis Team di Harvard, ha dato un contributo molto importante allo sviluppo del coaching pubblicando agli inizi degli anni 70 un libro, The inner game of tennis, in cui  spiegava che ogni gioco è composto di due parti, un gioco esteriore e un gioco interiore. Il gioco esteriore è giocato contro un avversario ed è riempito da molti consigli contradditori, il gioco interiore si svolge nella mente del giocatore ed i suoi ostacoli principali sono i dubbi di sé e l’ansia.  Vincere l’inner game significa sapere come trovare la propria via per lasciare emergere la propria prestazione migliore.  Il grande successo conseguito fece applicare il suo metodo ad altri sport e poi giunse nelle aziende, Gallwey fondò con John Withmore una società che prese il nome dal libro e la metodologia divenne un successo internazionale.

Quali sono i principi a cui Gallwey si affida? Il primo è quello che ipotizza che ciascuno di noi ha delle capacità potenziali che non utilizza appieno a causa di interferenze e quindi la sua performance potrebbe essere migliorata eliminando tali disturbi.  Per l’autore vincere il gioco interiore significa imparare a superare i dubbi su sé stessi, il nervosismo, l’ansia e le cadute di concentrazione che impediscono di avere prestazioni al massimo delle proprie possibilità. Quante volte ci siamo detti: “in quell’esame o in quella riunione aziendale non sono riuscito ad esprimere tutto quello che sapevo!”. Quante volte abbiamo sentito di giocatori che sul campo non riuscivano a replicare l’abilità mostrata negli allenamenti?

Ciò avviene perché ognuno di noi, ogni giocatore secondo l’autore, racchiude 2 sé: il Sè1 è il proprio ego o “il parlante” (colpisci la palla così); il Sè2 è l’abilità naturale o “chi fa” (il reale movimento dei muscoli per colpire la palla). Per giocare al meglio noi dobbiamo zittire il Sè1 e lasciar fare al Sè2 quello che sa come fare. IL Sé2 ama immagini e figure. Il miglior modo per zittire la mente non è dirle di tacere o discutere con lei a causa dei giudizi critici, ciò che è efficace è imparare la concentrazione, la focalizzazione che significa concentrarsi solo sugli aspetti di una situazione che sono indispensabili per portare a termine il  compito. Quindi se stai colpendo una palla da tennis tutto ciò su cui ti devi concentrare sono il tuo corpo e la palla: consapevolezza senza giudizio (concetto questo che viene sviluppato approfonditamente nella mindfulness).

La trasposizione di questi semplici concetti in ambito aziendale è quello che avviene quando un manager lavora con un coach che prima di tutto lo aiuta a raggiungere la piena consapevolezza della realtà e poi a descrivere un piano d’azione per gli obiettivi definiti. Il tutto avviene principalmente attraverso domande che il coach rivolge con lo scopo di generare nuovi punti di vista. E’ frequente il caso che azioni apparentemente banali generino un processo di apprendimento continuo con crescite personali molto importanti.

Il coaching parte dalla situazione presente ed è rivolto al futuro da costruire attraverso azioni concrete per raggiungere un obiettivo dato.

Quale potrebbe essere quindi una definizione di coaching?

Esiste una bibliografia sterminata con decine di definizioni e di comparazioni con metodologie affini o contigue, la parola non è stata tradotta e viene inoltre usata in molte accezioni diverse, quindi mi sembra utile proporre 3 definizioni complementari illustrando i motivi di una scelta che è sicuramente solo una delle tante possibili.

La prima definizione è quella di ICF – International Coach Federation – la più grande associazione di coach professionisti al mondo che attraverso i suoi 20.000 associati presenti in oltre 100 Paesi, si occupa  di favorire il progresso dell’arte, della scienza e della pratica del Coaching Professionale.

ICF definisce il coaching come una partnership con i clienti che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione, ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale.

Questa definizione, scelta per l’autorevolezza di chi l’ha formulata, si inserisce in un contesto di regole che ICF propone ai suoi associati ed ai coach che richiedono una certificazione

La seconda definizione è dovuta a Timothy Gallwey citato da Sir John Whitmore: sbloccare il potenziale di una persona per massimizzare le prestazioni... non insegnando ma aiutando ad imparare.

Questa definizione, generata da chi per primo ha utilizzato il coaching in ambito sportivo, rende chiaro che questa metodologia ha come scopo primario il miglioramento della performance e che il coach non è un docente o un esperto ma qualcuno accompagna nell’apprendimento creando le opportune condizioni.

La terza definizione illustra in termini semplici e chiari come avviene concretamente una sessione: il processo di coaching è fondamentalmente una conversazione, un dialogo tra coach e cliente in un contesto produttivo ed orientato al risultato. Una conversazione in cui, ponendo le domande giuste al momento giusto, il coach incoraggia ed aiuta a considerare prospettive e strategie diverse.

In questo caso è utile sottolineare la necessità di “un contesto produttivo ed orientato al risultato” che indica la necessaria volontà del cliente verso il risultato che lo rende anche responsabile del suo conseguimento.

Nato in ambito sportivo ed entrato da molto in azienda, il coaching è uno strumento potente per migliorare sia le prestazioni e quindi i risultati personali ed aziendali, sia la soddisfazione ed il senso di autorealizzazione di chi ne è coinvolto.

E' parte integrante dei nostri interventi di consulenza, e dei programmi Sestante e La squadra efficace

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Enrico Perversi

Questo articolo è tratto da un contributo apparso nel Marzo 2014 su La Rivista, pubblicazione della Camera di Comercio Italiana per la Svizzera.